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Ci sono momenti nella storia in cui la politica è chiamata a essere all’altezza della sua responsabilità più profonda: custodire la pace, difendere i valori democratici, proteggere le persone. Questo è uno di quei momenti.
I venti di guerra che tornano a soffiare in diverse aree del mondo, dall’Europa orientale al Medio Oriente fino all’Indo-Pacifico, segnano una fase drammatica e pericolosa per gli equilibri internazionali. L’idea stessa di un ordine globale basato sul diritto, sul rispetto reciproco e sulla cooperazione sembra sotto attacco. E in questo contesto fragile, ogni scelta politica pesa più che mai.
Proprio in questi ultimi giorni, abbiamo assistito a una nuova, gravissima escalation tra Israele e Iran. Dopo settimane di minacce, attacchi e ritorsioni, il rischio di una guerra regionale su larga scala è sembrato vicinissimo. È solo grazie a una mediazione dell’ultimo minuto se, almeno per ora, si è evitato il peggio.
Ma sia chiaro: non nutriamo alcuna simpatia per Trump, né per la sua visione del mondo. Il suo stile muscolare e propagandistico, il disprezzo per le istituzioni multilaterali e per il diritto internazionale, non sono la via che serve per costruire la pace. Quella pace di cui abbiamo invece un bisogno urgente, stabile e giusto.
È quindi fondamentale che questo cessate il fuoco non si limiti a congelare temporaneamente un conflitto, ma apra uno spazio concreto per la de-escalation diplomatica e, in prospettiva, per una normalizzazione dei rapporti tra Iran e Israele, nel quadro di un più ampio equilibrio regionale.
Al tempo stesso, non possiamo accettare che il prezzo della pace si paghi con l’oblio. Mentre l’attenzione internazionale si è concentrata – giustamente – sul rischio di un conflitto diretto tra due potenze regionali, la situazione a Gaza continua a essere drammatica e insostenibile. Non possiamo permettere che la causa palestinese venga rimossa dall’agenda internazionale.
Le tensioni costanti, l’alternarsi di attacchi e ritorsioni, non fanno che alimentare una spirale di odio e violenza che si autoalimenta e si espande. Se non fermata, questa dinamica rischia di trascinare l’intero Medio Oriente in un nuovo ciclo di instabilità cronica, rendendo l’Occidente stesso un bersaglio, e lasciando ai nostri figli un’eredità di insicurezza, conflitto e paura.
È il momento di rimettere al centro la Palestina, di chiedere a gran voce che si garantisca sicurezza e dignità ai civili gazawi, oggi privati di tutto: acqua, cure, rifugi, prospettive. Nessuna vera stabilizzazione sarà possibile senza affrontare questa ferita aperta con coraggio e con umanità.
Quella che stiamo vivendo è una delle fasi più buie del nostro tempo. Ma proprio per questo, la politica ha il dovere di farsi luce: non con proclami muscolari, ma con scelte coraggiose, pensiero lungo e spirito di servizio.
Il nostro impegno continua, dentro e fuori il Parlamento, perché crediamo che oggi più che mai ci sia bisogno di una politica che unisca, non che divida. Che costruisca ponti, non muri. Che dia speranza, non paura.
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