
Serve visione, serve futuro, serve coraggio
L’esito del referendum non può che essere letto con amarezza da chi ne ha sostenuto le ragioni. Bisogna essere onesti: quella che si è consumata è una sconfitta. E non servono scorciatoie dialettiche o interpretazioni di comodo per negare l’evidenza dei numeri. La partecipazione è stata troppo bassa, e il risultato sulla cittadinanza in specifico ha accentuato la distanza tra la proposta referendaria e l’orientamento dell’elettorato indicativamente di area progressista.
Ma il dato va interpretato in modo razionale, senza cadere nel rischio purtroppo ricorrente di politicizzare in modo strumentale strumenti che dovrebbero invece restare patrimonio di tutta la cittadinanza.
C’è un errore antico, nella lettura e commento del risultato elettorale, che già si manifestò clamorosamente con il referendum costituzionale del 2016: lì la personalizzazione eccessiva del voto da parte di Matteo Renzi trasformò una riforma istituzionale in un voto su di lui. Se allora si criticò la politicizzazione e personalizzazione, dobbiamo evitare di ripeterlo specularmente, facendo dell’esito del referendum un’arma politica di parte, invece di coglierne le vere implicazioni sociali e democratiche.
È vero: nella storia recente, i pochi referendum che hanno raggiunto il quorum, come quello del 2011 sull’acqua pubblica, hanno avuto un forte tratto politico, in quel caso era anche un segnale contro il governo di Silvio Berlusconi. Ma questo non giustifica la politicizzazione forzata. Semmai ci interroga sul senso della partecipazione oggi, su come si mobilita una società, su quali strumenti e argomenti utilizzi per esprimersi.
E allora, nel leggere questi risultati, dobbiamo riconoscere la molteplicità delle sue cause. Ci sono senza dubbio quesiti non sempre semplici, di difficile comunicazione e spesso tecnici, che non aiutano a coinvolgere l’opinione pubblica. Ma c’è anche un contesto più generale di anestesia partecipativa, alimentata da chi governa per depotenziare ogni forma di confronto, e da un’opinione pubblica che sempre più raramente si sente rappresentata dagli strumenti referendari, spesso aggirati o disattesi a posteriori attraverso leggi in Parlamento.
Del resto, il fatto che il referendum sia ammesso su quasi tutto non significa che abbia sempre senso ricorrervi. Esistono temi in cui l’introspezione individuale e il rapporto tra coscienza e legge permettono un coinvolgimento ampio e diretto: è il caso dei grandi referendum etici, dall’aborto all’eutanasia, dai matrimoni egualitari alla legalizzazione delle droghe leggere.
Su quei temi le persone si esprimono con la propria identità. Al contrario, quando i quesiti toccano dimensioni tecniche e giuridiche complesse, la discussione si sposta sulla propaganda e la partecipazione si svuota. Questo è uno degli insegnamenti che dobbiamo trarre da quanto accaduto.
Dispiace, perché i due grandi temi al centro del referendum, il lavoro e la cittadinanza, meritavano ben altro spazio nel dibattito pubblico. Non solo per la loro rilevanza sociale, ma perché interrogano direttamente il tipo di Paese che vogliamo costruire.
Sul lavoro, non voglio pensare che qualcuno abbia usato lo strumento referendario per regolare conti con scelte politiche del passato, ma la verità è che oggi le condizioni di contesto sono profondamente cambiate rispetto al 2014. La precarietà senza tutele esiste, certo, ma vi è anche una flessibilità legata anche a un’idea diversa di vita e di autonomia da parte dei giovani. Il compito della politica è affrontare questa complessità senza ricette nostalgiche: garantendo diritti, sicurezza, dignità, e questione salariale, tenendo anche conto della sostenibilità per chi il lavoro lo crea, ovvero le piccole e medie imprese, spesso dimenticate nei grandi schemi ideologici. Senza una vera alleanza tra lavoratori e imprenditori, ogni riforma è destinata a fallire. Il lavoro quindi centrale nell’iniziativa politica progressista.
L’altro grande tema, quello della cittadinanza, rappresenta personalmente un rammarico ancora più profondo. Non solo per la bassa partecipazione, ma per il segnale, chiaro e preoccupante, che un’ampia parte del Paese, compresi settori che si richiamano al centrosinistra, ha respinto l’idea di migliorare la situazione esistente per i futuri nuovi cittadini italiani. Un errore politico sottoporre tale argomento al referendum? Forse sì, anzi sicuramente, ma questo risultato dimostra come oggi esista una sfida culturale non semplice.
E lascia in eredità un altro effetto collaterale preoccupante: è difficile che ora, dopo questa bocciatura, si riesca a tornare con credibilità sul tema nei prossimi anni. La riforma della cittadinanza rischia di finire nel congelatore per molto tempo. Eppure è una battaglia giusta, che avrebbe meritato un’altra cornice, un altro tempo, un’altra strategia.
Questo è un sintomo di qualcosa di più grande: della paura. Paura del futuro, del cambiamento, del prossimo. Domina la paura rispetto alla speranza nel futuro, rispetto alla fiducia nel prossimo. E la paura, oggi, è il linguaggio dominante nella società. È il codice con cui le forze conservatrici riescono a parlare a chi si sente fragile, disorientato, in pericolo. È un sentimento legittimo, che spesso nasce da diseguaglianze reali, da insicurezze non ascoltate, e che trova nella periferia – geografica, sociale e culturale – il suo terreno più fertile.
Dobbiamo imparare a leggere queste fratture e per esempio considerare le politiche sulla sicurezza come una questione correlata alla libertà individuale.
E non è sufficiente, nei commenti post voto referendario, fare la somma con relativi confronti tra la somma dei voti presi dai partiti del centrodestra nelle elezioni politiche e i partecipanti al referendum, anche che fossero tutti referenti a un blocco sociale di centrosinistra, perché quando è il momento della confronto elettorale politico, a oggi, uno schieramento riesce a parlare con una voce sola, l’altro – il nostro campo progressista – appare troppo spesso disgregato, afono, incapace di dare una visione coerente e convincente.
La vera sfida allora, oggi, è ricostruire. Non solo un progetto politico, ma una cultura della partecipazione. Abbiamo davanti a noi potenzialmente due anni prima delle prossime elezioni politiche, serve un momento di confronto e elaborazione interna al Partito Democratico, chiamando personalità che hanno sempre guardato al nostro progetto politico con interesse, e poi un grande laboratorio aperto che metta insieme tutte le energie migliori del campo progressista: dalla sinistra più radicale alle aree liberali, dal mondo dell’associazionismo a quello delle professioni della cultura, dai giovani alle comunità locali, fino a tutte quelle intelligenze civiche che ogni giorno tengono viva la democrazia dal basso.
Serve visione. Serve coraggio. E serve smettere di guardare al passato, con lo specchietto retrovisore della nostalgia o della rivincita. La società italiana ha bisogno di una proposta che guardi avanti, che parli di lavoro come diritto e come dignità, di cittadinanza come inclusione, di giustizia sociale come precondizione della libertà.
Il referendum è stato uno strumento. Non il fine. Il suo fallimento ci parla, se sappiamo ascoltare. Sta a noi decidere se usare questa sconfitta come occasione di riflessione o come alibi per continuare a non scegliere.